Non siamo ancora al dopo di quel prima, stiamo vivendo un durante molto lungo che impregna l’anima.

Il dilagare incontrollabile della pandemia diventa sindemia: stiamo vivendo un complesso di patologie pandemiche che non sono solamente sanitarie, ma anche sociali, economiche, psicologiche, dei modelli di vita, delle relazioni umane.

C’è l’incapacità di sostare nell’incertezza che tutto permea, in questo tempo sospeso in cui stiamo vivendo. 

Mi sono trovata a ricevere delle richieste da ex pazienti per i loro figli o nipoti. 

Sono giovani dal 14 anni ai 24, un’ampia fascia di età, che dal liceo arriva quasi alla laurea e portano problematiche simili. 

Dall’attacco di ansia alla paura della morte passando attraverso la claustrofilia (di cui ho già parlato) all’inazione, alla totalità del tempo sui social, alla chiusura nel buio della camera, al ferirsi, ai tentativi suicidari…

Il clima, in famiglia e sociale, è oltremodo ansioso, il battage informativo non lascia il tempo di ragionare sulle notizie sentite perché una nuova ondata arriva. Sommersi da numeri astratti senza contesto in cui inserirli per comprenderli nella loro proporzionalità, l’ansia cresce e con questa la paura del contagio, per il lavoro, per il domani; in alcuni si manifesta con la ribellione, l’opposizione alle norme, la negazione che libera dall’ansia 

Manca a volte una critica costruttiva, sovente appare una opposizione acritica, sterile, che non arricchisce con un dibattito. Ma dire NO! è più agevole che argomentare.

C’è l’incapacità di sostare nell’incertezza e stiamo vivendo in un tempo sospeso. 

Mi interrogo.

Non è più trascurabile la risonanza tra psiche e cultura oggi, quando le neuroscienze raccontano che la mente è carne e l’individuo forma la propria mente plasticamente, modulata sensorialmente e affettivamente nell’interscambio?

Nella ormai riconosciuta unità indifferenziata di soma e psiche, che supera la dicotomia antica, non si può pensare che la psiche sia una pallina in punta al naso messa lì, come se fosse il naso rosso di Rudolph! 

Ma proprio grazie a questo naso rosso Rudolph guida e illumina il sentiero per le altre renne della slitta di Babbo Natale: il suo corpo si fa luce per affetto, per la gioia di portare i doni, per un sentimento.

Questi giovani sognano angosciosi incubi di rapine, uccisioni, aggressioni, furti, accompagnati da un risveglio pieno di inquietudine, hanno l’impressione di non sapere dove siano, non riconoscono immediatamente la realtà tanto il sogno è stato perturbante, provano un senso di oppressione che è stato definito “come avere un cinghiale sullo stomaco”.

Si sentono scippati della vita: non è un semplice furto, è una ingiusta sottrazione di un diritto, quello di vivere. 

Abbiamo scotomizzato la morte che con la pandemia ci è esplosa in faccia in tutta la sua durezza ed ineluttabilità. Sto pensando alle bare di Bergamo, agli amici scomparsi senza un saluto, agli isolamenti imposti e a quante volte, prima, si è isolato qualcuno relegandolo nei vuoti di memoria e di affetti.

Prima: infatti la pandemia ha creato una cesura nel nostro tempo e ora non siamo ancora al dopo di quel prima, stiamo vivendo un durante molto lungo che impregna l’anima.

Questi giovani vivono un durante inzuppato di ansietà, pervaso di paure, gravido di un futuro sterile, abitano l’incertezza.

Alcuni sembrano aver perso la speranza e mi allarma questa mancanza di visione nei giovani: stanno vivendo un sentimento dell’ormai, che neppure una vecchia signora come me prova, hanno perso il senso del nonostante, quello che spinge all’agire, al procedere, al progettare. 

Così si chiudono al buio senza musica e senza social oppure, all’opposto, scorrono ogni possibilità di incontro online perdendosi tra video e chat in una claustrofilia prevalente, che non è scalfita neppure dal vassoio con il cibo, portato da genitori preoccupati e accondiscendenti ai loro desideri.

Quando i social diventano l’unica finestra sul mondo e sostituiscono qualsiasi figura protettiva o dialogica, c’è l’impossibilità della parola e del confronto; allora si cercano le certezze di auto verifica, le conferme corrono in web e si ingigantisce l’identico pensiero, in un rispecchiamento claustrofiliaco di chiusura al diverso.

La mente non è più intrisa di una cultura connessa ad altre menti pensanti, si cerca la definizione di una cornice stabile e rigida in cui includere ogni difficoltà, risolte in nome di una monocultura che allinea in una posizione ancillare.

Ovviamente è meno ansiogeno dell’incertezza. 

A volte il dolore di vivere diventa insopportabile e farsi male sposta quel dolore, lo riduce di fronte ad uno più violento come chiudersi le dita nel cassetto spinto con forza, tagliarsi le cosce con una lametta, provare sino a che punto si resiste senza respirare con la testa infilata in un sacchetto, sporgersi dal balcone sino al limite per provare l’ebrezza di volare. Oppure stordirsi di alcool, bevuto a gran golate di nascosto, in solitudine, e poi fare in solitudine il selfie di ogni azione e gesto per mostrare e dimostrare la propria sfida al mondo. 

Eppure c’è la paura di morire nello sfidare la morte: il voler essere più forte della morte.

La morte definisce il limite della vita, quando la vita è rinchiusa si perde il senso di quel limite: tutto è limitato, nulla esiste, nulla interessa.

Subentra l’inazione. Sdraiati al buio, rannicchiati sul letto nel silenzio: senza pensare, mi dicono.

Ma un pensiero non pensato emerge come un retropensiero, sempre presente senza doverlo richiamare come pensiero: non ho voglia di niente.

La nullità esistenziale. 

La filosofia ne ha scritto a lungo nel secolo scorso, ne ha fatto un modo di vedere il mondo ed una diversa forma di azione nel mondo. 

Sartre diceva che noi umani non siamo liberi perchè non riusciamo a non progettare, non riusciamo ad essere semplicemente il nulla che siamo perché portiamo la responsabilità di ciò che facciamo.

Qui no. Non c’è filosofia, pensiero pensante, confronto, responsabilità nella ricerca di un significato alla vita.  Ma disincanto e disperazione dolorosissima. 

Un profondo cocente dolore dell’anima attraversata dal sentimento del nulla: nulla interessa, piace, si desidera, si pensa di poter progettare, si allontanano gli affetti perché nulla è anche nell’amare.

Quanto dolore. Mi riverbera nel profondo, ascoltandoli.

I giovani e la pandemia
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