La storia di un colpo di fucile, in un film di Alejardo Gonzales Inarritu: “Babel”.

In un solo istante quattro gruppi di estranei in tre continenti collidono, intrappolati nella crescente onda di incidenti le cui proporzioni crescono senza poter essere controllate e li trasformano attraverso la sofferenza che producono.

La sofferenza ineluttabile si compie tramite la migrazione inconsapevole di un fucile speciale, afflizione e solitudine unificano le diversità etniche e geografiche, Marocco, Stati Uniti, Messico, Giappone sono i paesi distinti tra loro in cui i protagonisti si accomunano per la stessa esperienza del patimento fisico e morale, dell’isolamento esistenziale. 

Il film racconta di un gesto senza ragione, immotivato, che agisce profondamente sulle vite di persone sconosciute tra loro in lontanissime zone del mondo. 

I personaggi sembrano vivere in una successione di aut-aut nel dispiegarsi delle sequenze senza apparente integrazione, in una successione quasi causale di avvenimenti non direttamente integrabili. Manca la connessione, l’integrazione, manca il “senso” delle cose in un ineluttabile rapporto tra ciò che è e ciò che non è ancora: il ciò che era affiora in momenti carichi di fatalità e brutalità, con una ferocia morale e reale che sembra aprire ad orizzonti dissennati.

 E’ il colpo del fucile. 

Genera un domino quasi accidentale partendo da due ragazzini, in uno sperduto paese del Magreb, ferisce la moglie di una coppia di americani in vacanza per ricucire una crisi anche derivante dalla morte di un figlio, coinvolge una tata messicana che vorrebbe andare a casa per il matrimonio del proprio figlio ma ha da badare ai due bambini della coppia americana, raggiunge una ragazza giapponese sordomuta alla ricerca di un gesto d’amore in una Tokyo frenetica e alienante, chiude il percorso nel dare un senso al non-senso del gesto iniziale.

Protagonista non è la difficoltà della comunicazione, non sono i diversi linguaggi espressi, non consiste nella difficoltà di comprendersi degli uomini tra di loro, la incomprensione non sta nel non esprimersi nella lingua di un luogo bensì nel non-dire per l’incapacità di dire, per l’afasia del dolore.

La babele non è sinonimo di confusione ma di molteplici parole, di sentimenti inespressi, lemmi lasciati cadere e non raccolti per la inconscia incapacità di vedere oltre la propria limitatezza, di percepire l’anima dell’altro; e in questa babele ognuno è solo, separato, abbandonato nel proprio dolore.

Il dolore è il protagonista che trasforma, trasfigura, attraverso il sentimento della morte. 

Il fantasma del figlio rinnova lo spasmo al solo pensiero e impedisce la parola ma non l’azione nella coppia; la drammatica realtà del sistema politico porta la morte per lo sparo dei ragazzini, in un crescendo tragico che ne coinvolge ogni membro; la pratica amministrativa travolge il duplice amore della tata, per il proprio figlio e per i figli della coppia, coinvolta in una compulsiva e rocambolesca corsa; il ricordo e la nostalgia della madre è amplificato nell’inconscio-inconsapevole della ragazza silente per parole ma non per gesti, movenze, fatti.

La babele delle lingue racconta la babele multietnica di storie e di destini, gli episodi di solitudine e dolore in quattro zone geografiche e con quattro lingue più la quinta, quella dei segni, che offrono lo spaccato di una cultura globalizzata nel dolore e nel migrare che opera il mutare di forma. 

La solitudine nell’esistere fa di ciascuno un abbandonato, una monade tragica nell’incapacità di erigere un ponte, chiuso nell’isolamento dei propri confini, frontiere e sbarramenti verso una relazione che parli di saper amare: ma l’aver imparato a esprimere un sentimento d’amore porta alcuni alla via d’uscita attraverso la rivelazione della sofferenza, la scoperta della mancanza da potersi dichiarare, manifestare, a chi sta imparando a percepire oltre il non-detto. 
Si comunica attraverso il linguaggio del dolore e ci si dà senso, oscillando tra il polo del reale e il polo del desiderato, tra il dolore della donna ferita e il silenzio della sordità della ragazza, tra l’abbandono ad una cultura totalmente diversa che sa accudire e lenire e l’incomprensione dell’uguale che sprofonda in un collettivo ossessivo.
La torre di Babele è la metafora di una diversità apparente, di un ossimoro: le “distanze vicine”
Culture diverse, la norma come ragione di condotta conveniente o imposta dalla gerarchia, il controllore dell’archè.
Se so dove consiste l’uomo, organizzo la normalità e la anormalità, ma l’uomo non ha un posto fisso perché è dis-posto. 
Si è fatti di passato e gravidi di futuro, vivendo il presente transeunte.
Il punto matematico o metafisico, non geometrico in quanto quantificabile, è paragonabile alla psiche: dal punto puoi costruire la geometria, come dalla psiche costruisci il soma, la lavagna su cui l’anima scrive le sue emozioni.
Il confine, luogo di linea condivisa e riconosciuta dalle parti, e la dogana, luogo del pedaggio, luogo non necessariamente condiviso, se paghi dazio passi altrimenti no. 
Con la dogana e il confine c’è il luogo del passaggio, del superamento, del tra-passo, dell’antinomia di qui o di là, l’aut-aut. Non c’è ponte.
L’opposizione definisce regole, norme, confini, dogane, la coniugazione del et-et apre al pensiero complesso, passa dal propter (se paghi dogana passi) al post (sei dopo il confine) che condivide l’insieme o gli insiemi. 
Si è collocati al di qui o al di là di una dogana, si è disposti nel confine.
Il passaggio dal luogo dell’opposizione all’oltre è il superamento del paradigma del niente e coglie il tra: la cascata consiste nell’essere tra un sopra ed un sotto, senza cui non potrebbe esistere.

TRA il dire ed il fare c’è di mezzo il mare; TRA il bianco ed il nero c’è in mezzo l’arcobaleno; è il TRA che definendo due ambiti sottolinea uno spazio, quello del superamento dell’antitesi per una coniugazione. L’interpretazione Talmudica marca lo spazio vuoto TRA le parole.
I due ambiti del Cristo, umano e divino insieme, significano l’esser-ci nel TRA, inducendo a vivere nella assenza della cesura definitoria, in quanto dove c’è l’uno c’è anche l’altro.
Elimina la scelta, complica il processo decisorio, induce alla commistione: il mettere insieme confonde e unisce, amplifica i possibili, illumina le alternative; è la polemica dei ponti.

Se Nicola Cusano paragonava la mente umana ad un poligono tendente al cerchio, oggi potremmo paragonarla ai frattali, dagli infiniti fiordi che ne generano altri tendendo ma non giungendo alla perfezione del cerchio.

Dal concetto di “finito come perfetto” che dà la tranquillità del “pensiero in riposo” nella certezza acquisita, a quello di “infinito come perfettibile” dove non c’è tregua alla ricerca per il “pensiero in azione”. Disperatamente.

Le distanze vicine, riflessioni da un film
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