Quando Emanuela mi ha proposto questo tema, eravamo in un patio al mare ed in bikini, un terzo abito, e mi sono chiesta a cosa fosse assimilabile: al tailleur od alla salopette? Una evidente situazione di altro o di tutto: altro in quanto non esprime, il bikini, una caratterizzazione definibile in termini di operatività, tutto in quanto ciascuna di noi può con-sistere nell’essere e stare in bikini.
Poi, al momento di pensare concretamente a questo tema mi sono interrogata: esiste ancora questa antinomia? Nelle caratterizzazioni estreme espresse da questi due simbolici abiti dove ci muoviamo ancora noi donne? 
Tra la luminosità dell’esterno, il bianco accecante del sole, ed il buio dell’interno, il nero, c’è l’intero spettro dell’arcobaleno, c’è l’iride con tutti i suoi colori: li abitiamo?
Proviamo a parlarne.
Cambiando funzione cambiamo d’abito: vestite in gessato in ufficio telefoniamo alla tata per sapere come sta il cucciolo, ma anche in tutaccia da lavori domestici possiamo rispondere al cellulare e ristabilire immediatamente il ponte sul lavoro e l’efficienza riappare anche su quel versante.
Si diventa dei Fregoli non solo nell’esteriorità ma anche nella modalità di relazionarci con l’interlocutore, ma quanto ci caratterizza l’abito? Nel primo impatto direi moltissimo, è un potente status symbol, ma l’anima? Come e dove resta?
Andiamo per gradi. 
Per prima cosa cerchiamo delle definizioni: cos’è l’abito.
È un termine filosofico, di Aristotele, che indica la disposizione costante ad essere o ad agire in un certo modo, definita come “disposizione ad essere bene o mal disposto verso qualcuno, sia verso di sé che verso altri”, si differisce dall’abitudine che si basa su una ripetizione meccanica e non esige una presa di posizione mentale o volontaristica.
Abito o “habitus” è una specie di attività umana influenzata dalla precedente, perciò acquisita, che contiene un certo ordine e una certa sistemazione di elementi in un’azione, progettante e dinamica o subordinata e nascosta. Nella correlazione tra stimolo e risposta, l’abito tende a dare una risposta in rapporto all’esperienza individuale, si “attaglia” quindi alla persona, uomo o donna.
Allora sviluppiamo ancora e dallo “habitus” andiamo nello specifico del femminile. Provo a ricercare dei significati condivisibili sul termine femminilità partendo ancora dalle teorie, questa volta dagli psicanalisti.
La femminilità è definita come un complesso di caratteristiche comportamentali e ideologiche che connotano in senso lato la psicologia femminile; è un tema molto discusso e si riscontra un contrasto significativo tra la teoria freudiana che parte dal dato biologico e la psicologia interpersonale che contestualizza il dato femminile partendo dal dato socio-culturale.
Freud ci vede e ci racconta come invidiose del pene (per questo ci travestiamo col gessato?) come utilizzatrici dell’analisi per appropriarcene ad esempio al fine di esercitare una attività intellettuale ed agire una modificazione sublimata di questo desiderio, espresso appunto dall’invidia ( lo racconta con intensità Lou Andreas Salomè, la prima donna a seguire le lezioni di Freud). 
Ci assegna particolari  caratteristiche: passività ( derivante dal ruolo riservato nella finzione sessuale), masochismo ( legato alla repressione dell’aggressività prescritto dalla nostra costituzione),  invidia  e  gelosia ( influssi a cui siamo sottoposte) , debolezza del super io ( che non raggiunge la forza e l’indipendenza, non dovendo superare l’edipo in quanto per la fanciulla è un porto sicuro),  autosvalutazione ( scoprendo la mancanza del pene nella madre, la donna perde di valore per la bambina), mascolinità (quando, in alternativa al precedente, rifiuta la mancanza del pene e persiste nell’attività clitoridea, influenzando la scelta oggettuale nel senso dell’ omosessualità), scarso senso della giustizia (per il prevalere dell’invidia nella sua vita psichica che non raggiunge la metamorfosi, ovviamente maschile).
Per fortuna Freud riconosce incompleto ed a volte non gentile questo elenco ed invita le donne stesse a studiarsi, in quanto per un uomo siamo paragonabili, anzi paragonate, ad un continente nero.
La psicologia interpersonale parte dalla condizione socio-culturale, interpreta i caratteri “negativi” non come conseguenza della differenza anatomica ma come interiorizzazione dei valori con cui gli uomini hanno costruito civiltà e cultura maschili.
Karen Horney racconta che la filosofia l’ha aiutata a comprendere che viviamo in un mondo costruito sui valori del maschile: civiltà, stato, leggi, moralità, religione, scienze… non deduce che le donne siano inferiori ma approfondisce e analizza questa civiltà maschile. Analizza le categorie, dall’arte alle idee sociali, che sembrano appartenere nella loro forma e nelle loro pretese alla umanità in genere, mentre sono maschili in tutto e per tutto nella loro configurazione storico-reale.
Così ribalta – e siamo nel 1919 – il quadro di Freud:  superiorità biologica (la maternità e la forza dirompente e oscura che ne comporta),  incertezza interiore (la bambina non può ispezionare i suoi genitali e resta nell’incertezza), inferiorità indotta (la bambina è esposta alla superiore posizione di forza del maschio), masochismo (indotto dalle regole sociali che inibiscono l’espansività, l’autonomia economica, lo sconfinamento da luoghi emotivi,  l’evitare il dolore nella sequenza  mestruazioni-deflorazione-parto). 
Inoltre stimmatizza l’esistenza del doppio parametro di salute mentale, per uomini e per donne, che domina una prassi terapeutica fatta di paternalismo o di violenza (sei nella migliore delle case se non l’accetti sei matta).
Con questi ascendenti e dopo quasi un secolo, dove siamo?
In mezzo abbiamo avuto negli anni ’50 la pillola (che ha liberato dalla gravidanza subita), nel ’60 e ’70 il femminismo (che ha effettuato una ricognizione dell’identità femminile  in contrapposizione agli stereotipi ideologici nel solco della Karen Horney e di tantissime altre) e, soprattutto, la pubblicazione nel 1929 del libro di C.G. Jung “Animus ed anima”, che ha infranto la contrapposizione dei due sessi pieni, uno interamente maschile e uno totalmente femminile, poi nel ’33  “L’analisi del carattere” di W Reich  e poi altro ancora, sino ad oggi… Si è tanto detto e scritto sul femminile, sul suo ruolo, sui suo essere donna oggi… ma come siamo? Forse nell’arcobaleno, ma con la difficoltà di scegliere il colore, nelle sfumature cromatiche.
La tragica caricatura della donna stressata tra marito-figli-lavoro, oggi induce alcune giovani a dire di voler scegliere di stare in casa con i loro bimbi, di non fidarsi ad abbandonarli alle signorine, di volersi godere la loro privacy… ma non hanno né il sapore né il sapere della “lotta” che le ha portate a pensare di poter scegliere. Inoltre mi chiedo se sia una scelta. Mi sembra simile a certe argomentazioni per cui le donne musulmane scelgono di indossare il burka (come una scelta tra la gonna e i pantaloni, ma il velo non vuole dirci qualcosa? Conoscenza celata o rivelata? Il “prendere il velo” cristiano inteso come separarsi dal mondo ed entrare in rapporto con Dio; o il velum dell’officiante romano come delle spose, simbolo di pudore e castità e rimanda al proteggere… ma questa è un’altre storia) ritorno al burka, se è inteso come un sentirsi meglio. 
Ma meglio di cosa? Meglio protette da sguardi maschili dileggianti e valutativi in negativo rispetto a norme sociali da loro non determinate? Meglio accolte dal loro ambito sociale che le configura in tale modo?
Si inneggia all’harem inneggiando una mendace libertà di scelta. Senza simboli nel racconto occidentale.
Inoltre, ancora mi interrogo se e come si sia libere e cosa significhi libertà: libere DA o libere DI. Questa è la grande domanda.
Libere DI muoversi in salopette che evoca giovinezza, libertà di esprimersi attraverso l’abito senza sottostare a ruolo-attese, con la consapevolezza che si è valutate per ciò che si fa non per ciò che si sembra fare, oppure libere DA pregiudizi incastranti, strutture sociali, doveri vincolanti, attese limitanti ma che non diventano mai “libere” in quanto c’è pur sempre un adeguamento a un’educazione che ci imprigiona nel dovere atteso e ribalta la finta libertà.

Poi ancora. 

Cos’è la libertà: preferisco l’interdipendenza che distribuisce responsabilità, rispetto a un generico sostantivo svuotato di significati talmente se ne è abusato.
Posso essere libera di indossare il gessato, lavorare in azienda, progettare promozioni e magari anche averle, ma la mattina quando sono pronta ad uscire e ho un appuntamento importante, mio figlio è lento a finire la colazione, sono nervosa, lo incalzo, mi vomita addosso, mi devo cambiare, arrivo in ritardo e non so come giustificarmi: certamente non posso raccontare l’accaduto, sarei ridicolizzata e svalutata come inefficiente e disorganizzata, aumenta il nervosismo, sono meno attenta a ciò che mi si chiede sul lavoro, scattano i sensi di colpa sul povero bambino trasportato come un pacco, diminuisce il rendimento, gli altri dicono che da quando sono madre ho la testa altrove (peraltro se non lo fossi avrei per la testa il desiderio inattuato di maternità) e anche se prima ero valutata ottimamente ora si inizia a mettermi il soffitto invisibile in modo più stretto. E sono “panata”.
Ma c’è un’altra immagine che mi si affaccia alla mente. Sono in tailleur, ma potrei anche essere in salopette, non importa, sto andando alla riunione di classe di mio figlio.
Tutte madri, tutte professoresse. Solamente donne. Dei padri, se c’è l’ombra è sparuta. Le madri incalzano le professoresse, chiedono più attenzione, avallano le punizioni (lo faccia almeno lei, noi non ci riusciamo), spingono al farli studiare, invocano rigore e normatività. Hanno occupato il posto ed il ruolo dei Padri, quelli con la P maiuscola di una volta, si sentono totopotenti: io l’ho fatto, io lo gestisco, nessuno meglio di me lo conosce-capisce-accudisce, svalutano la presenza del padre vissuto come disattento e lontano e disinteressato a quelli che solo loro sanno essere i veri problemi dei loro figli; la presenza paterna è periferica rispetto i grandi temi educativi, un po’ per obbligo visto gli orari che le aziende impongono, un po’ per scelta visto la predominanza delle madri.
Ma poi noi donne ne siamo contente?  Portiamo la “giacca” anche in casa e non raggiungiamo né il distacco dalle ambasce né la tranquillità del rilassamento: sempre sul tiro e sotto tiro.
Ne siamo contente? Cosa è successo per cui non sappiamo correre nei prati con i nostri figli né giocare con loro, non riusciamo ad affermarci sul lavoro come ci meritiamo, ma nel contempo occupiamo ancora degli spazi che potremmo lasciare liberamente ad altri?

È un problema di anima?

Forse nel senso junghiano, di “interiorità” in contrapposizione alla sua maschera esteriore che è detta “persona” (ci perdiamo l’anima nella persona?).

L’interiorità dell’Anima come parte contro-sessuale del maschio e dell’Animus come elemento maschile della donna, quello che si manifesta nei sogni personificato nell’archetipo dell’eroe o del dio (il Paride bello come un dio e dal film ho raccolto sogni nelle mie pz). 

C’è un bel libro “Il gesto di Ettore” che racconta dell’Anima dell’eroe, simbolizzato da Ettore che si leva l’elmo per non spaventare Astianatte: dolcezza e rispetto. Piace l’uomo tenero, che ha imparato a piangere: l’iconografia contemporanea ne esalta la figura in foto, pubblicità, racconti, immaginazioni; diventa il genitore accogliente e non normativo.
Invece l’Animus nella donna è più inquietante, ne ha scritto Emma Jung, per la complessità del raccordo con il logos e per l’invasività che può avere, rendendo la donna ostinata, aggressiva, testarda, dominatrice. Diventa il genitore normativo e perde morbidezza e accoglienza.

Queste caratteristiche negative corrispondono alle positive di risolutezza, forza, determinazione, capacità di vincere: perché nella definizione dell’Animus nel femminile sono espresse con questa connotazione sfavorevole?
Forse per lo snaturamento della femminilità quando è calato in abiti professionali e si diventa più maschili dell’uomo, si esagera l’attitudine al comando per non essere intese come fragili, non si fanno figli per non essere penalizzate sul lavoro? E tutte conosciamo la seduttività esasperata delle donne che utilizzano l’arma della sessualità e quasi l’attacco fisico per ottenere ciò che desiderano: potrebbe manifestarsi anche in questo modo il desiderio di potere-potenza in tailleur, con la sensualissima contraddizione del rigore dell’abito coniugato con lo spacco “ascellare” che a volte fa vedere più di quanto si potrebbe immaginare di intravedere.

Ostinata, aggressiva, testarda, dominatrice; così definiscono l’Animus nel femminile, è abitante nel tailleur? L’antinomia dello stereotipo potrebbe far pensare che se si veste con la salopette diventa morbida, dolce, accondiscendente, di buon comando?  
Forse ci muoviamo tra questi due confini scegliendo un luogo o l’altro attraverso la dogana dell’amore, quel limite che a volte ci fa pendere da una parte o dall’altra. La dogana d’amore è sovente quel crinale che condiziona la scelta in un tempo particolare, legando la donna a un ruolo che in seguito  le potrà star stretto ma che la veste strettamente al punto che se si spoglia induce l’altro a non riconoscerla, a dire “ma non è da te” e ricondurla  in uno stato depressivo, oppure a lanciare la sfida e andare oltre, in un processo di identità  fatto di autodeterminazione e di autonomia misto a solitudine in quanto non sempre è riconosciuta, appunto il “non è da te”: ma se lo faccio certo che è da me.

La filosofia insegna a ricercare l’aurea mediocritas, la giusta via di mezzo, la negoziazione insegna il win-win, equilibrando il vinco-io-e-vinci-tu come modalità di benessere comune, così difficili da raggiungere. Si devono superare dogane nuove, fatte di dinamiche sociali e di coppia, che mediano le antinomie e coniugano il modo d’essere in una lenta continua conquista fatta di riconoscimento dell’altro, quel grande incommensurabile Altro con cui ci si confronta in un’epoca post-femminista che mi auguro possa essere per noi donne fatto di risolutezza, forza, determinazione, capacità di vincere ma anche dolcezza, tenerezza, amorevolezza…

Cito da Galimberti:

Imparare ad abitare senza angoscia l’ordine della convenzione imparando a sopportare con grande fatica l’assenza dell’ordine naturale o del divino o del normativo, attraverso la filosofia che provveda alla conversione dell’anima da sede della memoria a produttrice di idee.

AGI E DISAGI: LA DONNA TRA TAILLEUR E SALOPETTE
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